Pubblicato il 7 Maggio 2007
“Ha interesse per tutto ciò che è cultura”, scrisse la mia maestra di quinta elementare nel libretto che allora accompagnava il percorso scolastico degli alunni. Con questa frase aveva colto il mio “pallino”, ciò che istintivamente mi attirava, che l’incontro con alcune grandi personalità avrebbe alimentato e fatto crescere.
In primo luogo mio zio don Carlo, poi don Luigi Giussani, don Francesco Ricci, p. Romano Scalfi. Preti di straordinaria umanità, che mi hanno aperto orizzonti letteralmente sconfinati. In loro, che pure avevano una solida preparazione accademica, la cultura non aveva alcun carattere intellettualistico, ma assumeva il sapore, il colore e il peso di qualcosa che aveva a che fare con la vita, con l’esperienza e il dramma dell’umano. Ascoltandoli, mi imbattevo in uno sguardo sulla realtà che mi affascinava: le pagine della storia, i geni artistici, i testimoni, famosi o sconosciuti – grande impressione destarono in me quelli dell’Est europeo – diventavano compagni di viaggio, arricchivano la mia coscienza, la provocavano a desiderare tutto ciò che è buono, bello, vero e a spendere la vita per questo. Attraverso di loro ciò che accadeva nel mondo – compresi, anzi soprattutto gli aspetti drammatici – diventava vicino, interpellava la responsabilità mia e dei miei amici, rendendo inquieta la vita e mettendola in movimento. Con un metodo semplice: chiamare la nostra libertà a paragonarsi con ciò che rendeva intensa e appassionata la loro vita. Per questo attorno a loro è cresciuto un popolo, ricco di opere e di storia, perché portatore di una cultura la cui sorgente originale era ed è la fede.
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