Pubblicato il 1 Giugno 2016
18 figli, follia. In natura è possibile, fidatevi, ma nella realtà? Non così raro. Però parliamo di casi, e sempre meno, in “paesi sottosviluppati”, “terzo e quarto mondo”, si dice, perché solo in quei contesti riusciamo vagamente ad accettarne la possibilità, e con rassegnata disapprovazione. Le donne sono state create anche per la maternità, ma non per figliare come conigli, l’ha detto anche il papa. E in certe culture, purtroppo, sono considerate solo macchine da riproduzione, fin da bambine, con tutti i rischi per la salute fisica e psichica.
Ci ribelliamo, giustamente, a questa riduzione di una creatura a corpo da usare. Ma ammettiamo che ad avere 18 figli sia una professionista spagnola. Che ama suo marito, non un sequestratore di mogli da rinchiudere in casa e fecondare, ma un compagno di vita scelto fin da ragazzo, attento, rispettoso, gentile. Una che ama il suo lavoro e, come tutte le donne, si fa in quattro (solo in quattro?) per farlo bene: e intendo il lavoro di moglie, madre, colf, baby-sitter, cuoca, portinaia, segretaria, infermiera, badante, insegnante, psicologa… Che ama la sua femminilità, quindi fare shopping, tenersi in esercizio, sentirsi a posto con se stessa, se non proprio bella come le dive della moda e del cinema, bella per sé e il suo uomo, cui tocca piacere sempre, non solo in luna di miele. Che ama la sua femminilità, cioè la facoltà e il dono di essere madre. Sempre, senza limiti, perché che si abbiano due, cinque o diciotto figli si è madri in toto e ad ogni istante, senza ritagli “per sé”: perché il “sé” coincide con la maternità, con la generazione e l’educazione dei figli, senza trascurare il resto, la giusta ambizione, l’amore a sé, le amicizie, il lavoro, lo svago, il tempo dedicato agli altri, tutto importante, tutto speciale, ma un po’ dopo, non in alternativa, perché prima c’è il futuro del mondo che ci è stato affidato.
Certo, ma 18! Diciotto nati. Quindici che vivono, mangiano, studiano, si arrabbiano, pretendono, scocciano, piangono, si innamorano, si ammalano, sporcano, costano, tanti pensieri, fatiche, soldi… più tre in cielo: la primogenita, volata via a 22 anni, nel fiore della giovinezza, e due bambini morti piccini piccini, per una grave malformazione cardiaca.
Ecco, la follia aumenta. Chiunque, dopo un’esperienza così, avrebbe suggerito ai coniugi, o comandato: “Non abbiate più figli!”. Ma i due fanno spallucce dei consigli non richiesti e vanno avanti. Perché? Per vincere un guinness? Per sfida, alla morte, al mondo che non capisce e irride, per presunzione? Per soldi, per fama in tv e su qualche settimanale pop? O per amor di Dio, convinti che sia Lui a dare grazia, compiti e responsabilità a ciascuno, insieme a sapienza, intelletto, forza e coraggio?
Volevamo ben dire. Fanatici cattolici ultratradizionalisti preconciliari. Che magari obbligano pure i figli a pregare tutti i giorni, tutti insieme. Li reprimono con regole e dottrine. Propongono, sì, anche di pregare. Ma per farvi un’idea del come, dovete leggere questo libro, il libro di Rosa Pich, madre speciale, donna normale, brillante, ironica, colta, poco sentimentale, molto concreta, molto netta nei giudizi e nelle decisioni, ma spalancata alla generosità e alla tenerezza che, nella fede, sono espressioni della carità.
Rosa racconta la sua storia, la decisione per l’esistenza, sua e di suo marito, senza prediche, senza sentirsi eccezionale o migliore. Rosa appunta il suo sguardo sulla quotidianità, sui figli, capitolo per capitolo, stilando una sorta di galateo familiare che non vale solo per chi ha 15 figli da crescere e seguire. Come si sta a tavola – e non si tratta di essere più o meno composti, ma di saper ascoltare, e spegnere il telefonino –, come si impara a stupirsi per le piccole cose, a ringraziare per quel che si ha, ad amare la natura, come far fruttare i propri talenti, come si deve tener fede agli impegni, prima di tutto quelli scolastici, come si può risparmiare e non considerare necessario quel che hanno tutti solo “perché ce l’hanno tutti”. Come si vive il dolore, la vacanza, come si danno premi e castighi, che aiutano a crescere, non reprimono affatto. Come si è genitori e non amici dei figli.
Immaginavamo: norme, prescrizioni, divieti. Ma no! Spicca, anzi, la naturalezza dell’ironia e dell’autocritica. C’è una conduzione casalinga un po’ militaresca, un pizzico di severità di troppo. Si resta storditi da tutta questa efficienza e correttezza e docilità e aiuto reciproco: ma neanche uno di questi ragazzi che sgarra, che passa le notti a sballare in discoteca, che si fa una canna? Neanche uno. Cova allora un po’ di invidia. Ma considerate che si è forzati all’essenziale e alla maturità quando si è in tanti in famiglia. Considerate che Rosa e suo marito sono formati su un carisma chiaro, anche se non dichiarato, appartengono a un’anima della Chiesa che ha una storia e un metodo. Non varrà per tutti, ma se funziona, e funziona per loro? Rosa, suo marito, i loro figli, sono felici. Non esaltati, ma sereni. Se la cavano, sono uniti, si vogliono bene. Saranno anche folli. O forse santi. Scandalosi, come tutti i cristiani.
Piacerebbe a tutti, però, una famiglia così, siamo sinceri. Il punto, però, è capire non come si fa, che non ci sono manuali, ma su che strada mettersi, che cosa chiedere, che sguardo avere su se stessi, su chi ci è stato donato, su cosa si fonda il nostro amore, la nostra libertà vera.
Buona lettura. Leggendo, qualcosa si intuisce…
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