Pubblicato il 30 Dicembre 2006
Devo il mio nome al fatto essere nato sotto il pontificato di Eugenio Pacelli, papa Pio XII. Il greco eugenés rimanda alla bontà della nascita – di nobile stirpe – e alla qualità dell’animo: di nobile indole, di alto sentire. “Nato per il bene”: a questa espressione trovata in qualche dizionario etimologico ho sempre associato il mio nome, come se in esso fosse contenuta una vocazione.
A “fare il bene” sono stato educato nella mia famiglia, con la silenziosa testimonianza di mia madre, con l’instancabile e gratuito impegno di mio padre nel sindacato, nella cooperazione, nella politica. Grazie a questa “nobile stirpe” ho sentito, fin dai primissimi anni di vita, il fascino del bene e l’esigenza intereriore e consapevole di servirlo.
Ma il bene bisogna conoscerlo, direbbe il Manzoni. Ancora più drammaticamente ho dovuto riconoscere che questa disposizione del cuore non è sufficiente a “fare il bene”. Quante volte ho meditato la frase tratta dal Brand di Ibsen: “Rispondimi, o Dio, nell’ora in cui la morte m’inghiotte: non è dunque sufficiente tutta la volontà di un uomo per conseguire una sola parte di salvezza?”. Era una delle citazioni ricorrenti di don Giussani che davanti a Giovanni Paolo II, in Piazza San Pietro, il 30 maggio 1998, la commentò ampiamente. “L’infedeltà, disse, sempre insorge nel nostro cuore, anche di fronte alle cose più belle e più vere, in cui, davanti all’umanità di Dio e alla originale semplicità dell’uomo, l’uomo può venire meno per debolezza e preconcetto mondano, come Pietro e Giuda. Pure l’esperienza personale dell’infedeltà che sempre insorge, rivelando l’imperfezione di ogni gesto umano, urge la continua memoria di Cristo”. E concludeva: “Al grido disperato del pastore Brand… risponde l’umile positività di santa Teresa del Bambin Gesù che scrive: “Quando sono caritatevole è solo Gesù che agisce in me“.”
“Fare il bene” come frutto della propria capacità (supposta) rende soli e tristi: alla lunga stanca e inaridisce. Ma se il bene è una presenza che accade davanti ai nostri doni come dono gratuito, inaspettato e immeritato, ci attrae e ci afferra nel suo dinamismo. Non uno sforzo, ma un’attrattiva e un lasciarsi afferrare. Come abbeverarsi ad una sorgente inestinguibile. Allora il miracolo diventa l’orizzonte possibile di ogni giornata.
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