Pubblicato il 31 Maggio 2012
La peregrinatio delle reliquie dei coniugi Luigi e Zelia Martin, che recentemente sono state portate a Castel Bolognese e a Lugo, ha richiamato l’attenzione sulla santità come dimensione non solo della persona, ma della famiglia stessa.
Uno dei luoghi dove le reliquie hanno sostato è la Casa d’Accoglienza San Giuseppe e Santa Rita, sorta da una famiglia, Giuliano e Novella Scardovi, che con la loro vita e la loro opera hanno ridestato e segnato tantissime persone.
Per tale ragione in occasione dell’incontro mondiale delle famiglie può essere utile richiamare alla memoria una storia in cui ciò che emerge non è una capacità ed una genialità puramente umana, ma cosa può fare Cristo in una persona e in una famiglia quando si lasciano afferrare da Lui.
La storia che li ha portati a costruire la Casa, infatti, è iniziata in un campeggio dove Novella si trovava per curare una sorta di male di vivere che da tempo rendeva spenti i suoi occhi e tristi le sue giornate fino a mettere in crisi anche il matrimonio. Nulla era in grado di attrarla, di destare il suo interesse e di renderla felice. Ma in quel campeggio fece esperienza di una grazia imprevedibile. Attraverso l’accoglienza semplice di una famiglia che conosceva di vista e la preghiera assieme a loro riconobbe il Signore che le veniva incontro, che le era amico. Comprese di chi era la vita, la sua vita. Da quel giorno non si sentì più orfana, ma voluta, amata. I suoi occhi tornarono vivi, le giornate intense, mosse dal desiderio di ridonare ad altri ciò che a lei era stato dato e l’aveva liberata dall’angoscia. Un mese dopo quell’incontro don Gianni Cenni, allora arciprete di Castel Bolognese, celebrava nella loro casa la Messa per i dieci anni di matrimonio.
Poi il 22 maggio dell’anno seguente, il 1978, l’intuizione di una grande casa dove accogliere bambini. Sogno apparentemente folle per una casalinga sposata con un vigile urbano, che a fatica arrivavano al fine mese, ma tenacemente perseguito (e realizzato due mesi prima della morte in un incidente stradale) nella certezza che se il Signore l’aveva scelta e aveva suscitato in lei quel desiderio l’avrebbe portato a compimento.
Novella concepiva la casa come un segno e un seme di bene per tutti. Lo stesso nome del podere dove era sorta, la Furlona, la cui etimologia rimanda all’idea di solco o canale per l’irrigazione, le aveva suggerito l’immagine della casa come strumento per «bonificare questa terra». Era questo il suo intento, risvegliare l’amore al bene attraverso la carità per ricostruire il popolo come il terreno buono attraverso il quale l’io è ricreato e porta frutto. Era stato così per lei in quella tenda e questa era la strada che proponeva a tutti.
Negli ultimi tempi ci ripeteva continuamente che non si può diventare amici se non impariamo ad amare Gesù, se non fissiamo il Suo volto, se non riconosciamo in Lui quell’amore misericordioso che tutto abbraccia e tutto salva, anche il nostro limite e il nostro male. Nella prima pagina di un’agenda aveva scritto a caratteri cubitali: “Sotto il segno dell’amore”. E aggiunge: “Sarà forse il titolo di un libro che scriveremo con Eugenio. Vuol dire che il segno non è l’acquario, come avrei detto fino a poco tempo fa, ma l’amore di Dio per me”.
Questa costante tensione a Colui che aveva fatto rinascere la sua vita è la vera eredità di Novella che spiega il permanere e il fiorire dell’opera che da lei è nata, segno evidente dell’opera di Dio tra noi a cui guardare per potere sperare in questi tempi di smarrimento e di confusione.
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